Il caos in cui vive la Libia da oltre un decennio costringe la popolazione a trascorrere la propria esistenza in un tunnel nel quale muoversi a tentoni, affrontando la difficile realtà giorno dopo giorno. Tale incertezza non permette nessuna programmazione e rende il futuro sempre più incerto. La mancanza di una visione comune dei protagonisti locali (e internazionali) e la volontà di non modificare lo status quo complicano, ulteriormente, una situazione già di per sé delicata. In tale contesto, il processo politico – sostenuto dalle Nazioni unite e da buona parte della comunità internazionale –, che aveva riacquistato vigore con la nomina del nuovo rappresentante speciale onusiano, Abdoulaye Bathily, pare destinato a fallire, nuovamente. Le elezioni che, nelle intenzioni del responsabile della missione Onu in Libia (Unsmil) dovrebbero svolgersi entro la fine del 2023, sembrano un miraggio, così come appare sempre più complicata la risoluzione di alcune questioni-chiave necessarie a determinare un’effettiva stabilizzazione del paese.
Lo scorso 19 giugno, Bathily ha informato il Consiglio di sicurezza dell’Onu sugli ultimi sviluppi del percorso politico nel paese nordafricano. Secondo il diplomatico senegalese, nonostante qualche passo in avanti compiuto recentemente dal Comitato 6+6 (composto da sei membri della Camera dei rappresentanti, HoR, e dell’Alto consiglio di Stato, Hcs), gli sforzi dei protagonisti del palcoscenico politico libico sono insufficienti a risolvere i principali dossier. Il riferimento era agli ultimi incontri che si sono svolti tra i due organi legislativi a Bouznika, in Marocco. Il Comitato misto ha raggiunto un’intesa sulla questione relativa all’elezione del presidente e dell’Assemblea parlamentare. Tuttavia, la firma dell’accordo definitivo è saltato a causa della distanza delle parti su alcuni punti. In particolare, tra le altre questioni, quella dei requisiti dei futuri candidati alle elezioni presidenziali ha bloccato l’intesa. Per Khaled al Meshri, presidente dell’Hcs, i candidati dovrebbero rinunciare a eventuali doppie cittadinanze e a ruoli militari. Si ricorderà che tale questione è stata tra le principali motivazioni che hanno portato al mancato svolgimento delle elezioni nel dicembre del 2021.
Le difficoltà delle Nazioni unite non sono, tuttavia, una novità. È da anni, infatti, che il processo promosso dall’organizzazione si scontra con la gestione e la tutela degli interessi dell’élite al potere nell’ex colonia italiana. Inoltre, nessuna traccia si ha del panel di alto profilo che si sarebbe dovuto formare, come dichiarato dallo stesso Bathily lo scorso febbraio, per trovare una soluzione alle controversie e accompagnare la popolazione alle urne. La mancata formazione di questo organo è un’ulteriore dimostrazione delle evidenti difficoltà della diplomazia internazionale a mettere d’accordo anime con visioni così contrastanti su tematiche decisamente complesse.
Le dichiarazioni di Bathily arrivavano poche ore dopo quelle di Aguila Saleh, presidente dell’HoR, con cui ha voluto sottolineare – in una seduta parlamentare, dove era ospite anche il suo omologo egiziano, Hanfi Jebali – gli sforzi del Comitato 6+6 per superare gli ostacoli che dividono le due fazioni e, soprattutto, la necessità di formare un nuovo governo di unità transitorio per supervisionare gli affari politici fino alle elezioni. Lo stesso Khalifa Haftar ha dato il proprio benestare alla formazione di un nuovo esecutivo che andasse a sostituire i due governi oggi presenti nel paese: il Governo di unità nazionale (Gun) e il Governo di stabilità nazionale (Gsn). In una dichiarazione, l’Esercito nazionale libico (Lna) – guidato dall’uomo forte della Cirenaica – ha infatti affermato di sostenere le raccomandazioni del Comitato 6+6 e tutte le “soluzioni politiche oneste”, invitando i due organi legislativi “a porre rapidamente fine allo stato di divisione politica e a formare un nuovo governo per organizzare le elezioni”. Se, da un lato, la rimozione del Gsn – attualmente presieduto da Osama Hamad – è una pura questione burocratica; dall’altro, a Tripoli, Abdulhamid Dbeibah – premier del Gun – vorrà delle forti garanzie prima di cedere il potere acquisito dal momento della sua “elezione”, avvenuta a inizio 2021 nell’ambito del Libyan political dialogue forum a Ginevra. Il premier misuratino, che fino a poco tempo fa era abbastanza riluttante all’idea di lasciare il posto ad un nuovo esecutivo, recentemente sembra disponibile al colloquio e l’ultimo incontro con Khaled al-Meshri va in questa direzione. Nonostante alcune decisioni delle ultime settimane di Dbeibah, che andavano nella direzione di un rafforzamento della sua posizione (vedi bombardamenti con droni su postazioni miliziane a Zawiya o creazione di una nuova agenzia di sicurezza a Tripoli), la possibilità di poter correre da protagonista alle eventuali presidenziali ha aperto, di fatto, le porte al dialogo.
Un filo, quello tra la fazione orientale ed occidentale, che godrà dei vantaggi derivanti dalla normalizzazione delle relazioni in corso tra Turchia ed Egitto. L’invito del rieletto presidente turco, Recep Tayyip Erdoğan, al suo omologo egiziano, Abdel Fattah al-Sisi, di recarsi ad Ankara è un’ulteriore conferma del processo avviato. Come già scritto in articoli precedenti, tale processo potrebbe avere risultati positivi sulla questione libica. Ankara e il Cairo, infatti, restano i due player maggiormente coinvolti nella disputa. Da una parte, il sostegno turco a Tripoli non ha mai incontrato difficoltà, anche grazie a una serie di accordi che hanno rafforzato ulteriormente i legami tra i due partner; dall’altra, alcune questioni (su tutte crisi in Sudan e dossier migratorio) hanno creato alcune crepe tra al-Sisi e Haftar. Tuttavia, non vi è ombra di dubbio che il sostegno egiziano alla regione orientale è ancora forte e concreto.
Nel frattempo, dopo oltre un decennio, sono ripresi i colloqui tra la Libia e il Fondo monetario internazionale (Fmi). È stato pubblicato il report dell’organismo finanziario, dopo la missione nel paese maghrebino e i colloqui sull’articolo IV. Ai sensi di tale articolo il Fondo tiene discussioni bilaterali con i membri, un team visita il paese interessato, raccoglie informazioni economiche e finanziarie e discute con i funzionari a proposito degli sviluppi economici e delle politiche del paese. Per quanto riguarda l’ex colonia italiana, nel comunicato si legge che le autorità libiche hanno compiuto progressi per migliorare la trasparenza e la raccolta dei dati e ciò ha consentito una ripresa dei colloqui tra i due soggetti. Nonostante turbolenze e oscillazioni nella produzione e nelle entrate petrolifere, la Banca centrale libica (Bcl) è riuscita a mantenere un ampio stock di riserve internazionali. Il Pil è rimasto volatile e l’inflazione è stata relativamente contenuta nonostante il deprezzamento del dinaro. Al contempo, si prevede che la produzione di idrocarburi crescerà del 15% nel 2023 (da 1 milione di barili e a 1,2 al giorno) per poi aumentare gradualmente. Tuttavia, rimane il rischio legato alla volatilità dei prezzi del petrolio, alla crescita globale inferiore alle attese e ai disordini interni. Secondo il comitato esecutivo del Fmi, è necessaria una modernizzazione dei quadri fiscali e uno sviluppo delle politiche monetarie e finanziarie, oltre a una necessaria diversificazione economica. Altresì, risulta fondamentale la riunificazione delle Banca centrale per rafforzare le diverse politiche, sostenere la stabilità finanziaria e promuovere lo sviluppo del settore privato.
Per concludere, se i miglioramenti sul fronte economico – nonostante rischi e complicazioni – fanno sperare per il futuro della popolazione, le difficoltà sul fronte politico creano non poche preoccupazioni. Il caos presente nel paese ha una sua logica che difficilmente vedrà la fine senza compromessi che possano permettere il raggiungimento di una soluzione nel breve periodo. Il cammino verso la stabilizzazione definitiva del paese nordafricano pare quindi essere ancora lungo e travagliato. La logica degli attori influenti – domestici e internazionali – continua ad essere quella di lavorare totalmente per la tutela dei propri interessi, mentre la Libia e la popolazione seguitano a navigare nell’ignoto. In tal senso, una effettiva democratizzazione appare altamente improbabile.
Mario Savina
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